Lettere

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Carissimo Antonio, Eligio Fulli mi chiede di scriverti una lettera come testimonianza del mio mezzo secolo con tè. Figurati se mi sono fatto pregare! Ancora ti vedo ai Mercati di Traiano nel 1940 fra una idea di fucilazione di Guttuso e un ritratto di bottiglie di Stradone, con quelle maschere color zafferano, quelle atmosfere che riaprivano il discorso di Scipione, del resto mai interrotto nella "scuola romana". Ma tu, come pochissimi altri superstiti della strage che ha fatto di noi il tempo, in guerra e in pace, sei per me molto di più che uno degli artisti più personali e fantasiosi che abbia operato nella Capitale, sei un totem di amicizia e di dialogo, anzi, di fraterne bevute e mangiate e insaziabili quali siamo sempre stati e ascoltazioni di tuoi monologhi monumentali, seppellitori di tutto e di tutti, affinché l'arte trionfi sopra la tela come la circonferenza del mappamondo, faccia dell'atomica sugli orizzonti un alberone senza più nocumento, un fiore di tenerezza. Magari esistessero ancor oggi amici artisti del tuo calibro e del tuo stampo, irriducibili, irrefrenabili, che non hanno mai avuto il tempo di far altro che non far niente, un far niente ricco di immagini, circhi, nuvole, ponti, ipotesi di mondi nuovi, arlecchinetti, cavalli ritti sulle zampe posteriori, pomellati da quel truccatore del Padreterno, il quale ti ha regalato colori e pennelli e ha detto: Antonio, levati di torno, non ti voglio più sentire pontificare, per questo basto io: tu procedi per viale Trastevere, inventa la Roma tua e fai credere a tutti, coi tuoi quadri, che stiamo all'estero, magari, in una Parigi dove Dufy fa le aste rosse e blu, gli terrai tu la mano. Ah mia cara capoccia di pietra, che a prima vista pare quella di un condottiero fuori dall'armatura e sceso dal cavallo, ma che invece è bimbo mascherato, severo per scherzo, proprio per esser lasciato in pace a scrivere il suo trattato sullo spaghetto alla Carbonara, oppure "Del monte di Venere", in ventottomiladuecentoquarantasette pagine, in cui le virgole sono fatte col pelo.
Basta, spero tanto di essermi del tutto abbandonato in una fraterna, privatissima squalificazione, dove non entri altro che la vita, dove non entri la critica, ma solo la tua immortalità.
Marcello Venturoli